Interno
L’interno, quale si presenta oggi, è frutto dei vari rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli.
Demolito parzialmente e ricostruito l’antico edificio nel primo trentennio del Settecento, mantenendone solo la parte absidale, scarse sono le notizie sulla sua decorazione cinquecentesca, solo in parte utilizzata per il nuovo, spesso dopo un intervento di restauro e di adeguamento alle mutate esigenze decorative. Alcuni dipinti e sculture provenienti dall’antica chiesa, primo tra tutti il Cristo portacroce , si possono oggi ammirare nei locali della Scuola, altri sono nei depositi.
Le descrizioni delle antiche guide sono spesso sommarie, come frammentarie sono le informazioni che si ricavano dalle fonti archivistiche, dalle quali si apprende che inizialmente il corpo di san Rocco era stato deposto nella cappella absidale sinistra e che, tranne l’altare maggiore, tutti gli altri erano di legno. Solo nel corso del Seicento, infatti, venivano innalzate le ricche strutture marmoree degli altari della Spina e del Santissimo Sacramento nelle cappelle absidali, rispettivamente destra e sinistra.
Nel giugno 1725 quadri e arredi furono rimossi a causa dei previsti lavori di demolizione, staccando anche alcuni brani di affresco, per ricollocarli parzialmente nella nuova navata alla fine del decennio. Ma, nonostante le profonde manomissioni subite, risulta subito evidente a chi entri nella chiesa come il suo fulcro devozionale e artistico sia costituito dal presbiterio, dominato dal monumentale altare maggiore, in cui dal 1520 riposa il corpo di san Rocco, incorniciato dagli affreschi del Pordenone, mentre sulle pareti laterali giganteggiano i teleri di Jacopo Tintoretto , che narrano episodi della vita del santo di Montpellier, additando ai confratelli, come esempio da imitare, la sua esistenza votata alla carità e all’amore per il prossimo.
L’altare maggiore
Già nel 1498 la Scuola aveva deliberato che il corpo di san Rocco, inizialmente deposto nella cappella absidale sinistra, fosse traslato in quella maggiore, ma solo nel 1516 si bandiva il concorso per l’altare destinato a racchiuderne l’urna, Mossa da un intento devozionale e auto-celebrativo al tempo stesso, la confraternita desiderava infatti erigere al proprio patrono un “monumento” tale da oscurare con il suo splendore qualsiasi altra tomba o altare esistente in città. Scelto il modello del bergamasco Venturino Fantoni, che prevedeva l’esecuzione di un altare marmoreo con sette statue, l’opera fu condotta sotto la direzione del proto, Pietro Bon.
Il 31 marzo 1520 avveniva la solenne traslazione della reliquia, anche se l’altare era ancora incompleto. Negli anni successivi venivano quindi collocate le quattro statue nelle nicchie. Quelle di San Giovanni Battista e San Sebastiano, ai lati del patrono, come i putti che ne sorreggono il sarcofago sono attribuite al padovano Gianmaria Mosca, mentre quelle dei santi Pantaleone e Francesco nell’ordine superiore, nonché le figure dell’Annunciata, dell’Angelo e di Dio Padre sul coronamento, ben corrispondono allo stile di Bartolomeo Bergamasco.
Nel suo insieme la struttura costituisce dunque uno straordinario esempio di “tomba con pala d’altare”, la cui sontuosità è accresciuta dalla policromia dei marmi – porfidi, verdi antichi, marmi venati – e dalle dorature, trovando il suo naturale completamento negli affreschi del Pordenone che l’affiancano, amplificandone l’impatto visivo nella suggestione dell’architettura dipinta.
Gli affreschi del Pordenone
Compiuto l’altare, nel 1528 la Scuola decise di decorare la cappella maggiore affrescando l’abside e la cupola e prevedendo, per le pareti laterali, l’esecuzione di quattro teleri con storie di san Rocco, che, però, furono dipinti molto più tardi. Solo nel 1549, infatti, l’impresa fu affidata a Jacopo Tintoretto, che la portò a termine con lunghi intervalli.
L’originaria decorazione a fresco, compiuta da Giovanni Antonio da Pordenone credibilmente già entro l’estate 1528, presentava nella cupola Dio Padre accompagnato da una moltitudine di angeli, figure dell’Antico Testamento sul tamburo, i quattro Evangelisti nei pennacchi e quattro Dottori della Chiesa nelle lunette, mentre nel catino absidale campeggiava la Trasfigurazione di Cristo.
Di questo complesso insieme sopravvivono solo sette grottesche “a candelabra” nella parte superiore dell’abside e, più in basso, due coppie di putti recanti gli attributi di san Rocco (il bordone e il cappello a sinistra, la bisaccia a destra), in piedi, di fronte a due piccole absidi dipinte illusionisticamente, all’interno di un’architettura fittizia, che riprende quella della struttura dell’altare, divenendone integrazione e ampliamento. Ma, pur dai pochi frammenti rimasti, risulta evidente che si trattava di uno dei principali cicli affrescati dal Pordenone: un’opera di carattere trionfalistico, che ne impegnò il talento decorativo, contribuendo a conferirgli grande fama in città.
Il rifacimento di Giuseppe Angeli
Irrimediabilmente deterioratasi con il tempo, la rimanente decorazione murale del presbiterio fu ridipinta tra il 1764 e il 1766 da Giuseppe Angeli, che pur mantenendo sostanzialmente l’iconografia pordenoniana, la tradusse però in un linguaggio improntato ad un’enfasi scenografica tutta settecentesca. Di sua mano sono: la Trasfigurazione nel catino absidale, il Padre Eterno in gloria nella cupola, gli Evangelisti nei pennacchi, i dottori della Chiesa – Sant’Agostino e San Gregorio Magno sulla parete sinistra, San Girolamo e Sant’Ambrogio su quella destra – nelle lunette. Solo nel tamburo si riscontrano dei mutamenti rispetto ai soggetti delle pitture precedenti, quali ci vengono tramandati dalle fonti. I dipinti dell’Angeli rappresentano infatti (in senso orario a partire dal pennacchio raffigurante San Marco): Mosè che riceve le tavole della legge, il Sacrificio di Abramo, Davide e Golia, l’Arcangelo Raffaele e Tobia; Giuditta e Oloferne; Giaele che uccide Sisara, l’Apparizione dell’angelo a Gedeone.
La navata e i suoi dipinti
La decorazione della navata è in stretta relazione con il suo rifacimento settecentesco (1726-1729).
Al centro del soffitto campeggia il grandioso dipinto (1675) di Giovanni Antonio Fumiani, in cui Rocco è raffigurato nell’atto di distribuire le proprie ricchezze ai poveri prima di intraprendere il pellegrinaggio a Roma, in una composizione scenografica di gusto pienamente barocco: il santo compare al culmine di una scalinata in forte scorcio prospettico, dove si affollano uomini, donne, bambini, tutti in attesa di essere beneficati dalla sua generosità.
Allo stesso Fumiani spetta poi la concitata e brillante Cacciata dei mercanti dal Tempio, collocata al centro della parte inferiore della parete sinistra (1678). Al di sopra, due grandi tavole con le possenti figure dei santi Martino e Cristoforo (1527-1528), una delle opere più significative del Pordenone. Le tavole, in origine sportelli di un armadio destinato a custodire gli argenti provenienti da doni, voti e offerte di fedeli, sono affiancate da due affreschi staccati, anch’essi opera del maestro friulano, in cui sono rappresentati gruppi di Supplicanti affetti da malattie e menomazioni, assiepati sotto una loggia che sembra continuare nella struttura architettonica quella dei due elementi centrali.
Di fronte, al di sotto della Cattura di san Rocco, un capolavoro giovanile del Tintoretto, La guarigione del paralitico (1559), anch’essa un tempo decorazione delle portelle di un armadio per gli argenti.
Degne di nota sono infine le pale dei quattro altari, identici per struttura architettonica (1733 c.): il Miracolo di sant’Antonio di Francesco Trevisani, la brillante Annunciazione di Francesco Solimena, ma soprattutto le due splendide opere estreme di Sebastiano Ricci con San Francesco di Paola che risana un fanciullo e Sant’Elena ritrova la vera Croce, che insieme alle statue di David e Santa Cecilia, scolpite da Giovanni Marchiori nel 1743 per la cantoria dell’organo, sono senz’altro i più preziosi capolavori dell’arredo settecentesco della chiesa.